Autori del testo - Pier Paolo Pasolini, Sergio Endrigo
Autori della musica - Sergio Endrigo
Interprete - Sergio Endrigo
Fu un’idea di Ennio Melis, il direttore artistico della RCA, quella di farmi collaborare con Pier Paolo Pasolini. Anzi lui voleva che Pasolini scrivesse i testi per delle ballate che parlassero del mondo che aveva descritto nei suoi romanzi, i ragazzi di vita, la Roma delle periferie, e che io le musicassi. Così ci incontrammo e io gli parlai di questa idea, ma lui in quel momento stava partendo per l’Africa, doveva fare dei sopralluoghi per un film che doveva girare, non aveva molto tempo e mi disse di guardare tra le sue poesie friulane, in una raccolta che si chiamava “La Meglio Gioventù”, e che prendessi pure quello che volevo. “La Meglio Gioventù” è la storia di una famiglia friulana, la famiglia Colussi, la famiglia della madre di Pasolini, dall’età di Napoleone alla Resistenza. Io presi la prima parte, c’era già la traduzione, mi limitai a togliere qualche sillaba e ad adattarla alla metrica della musica che avevo scritto e così registrai Il Soldato Di Napoleone.
(da “Sergio Endrigo. La Voce Dell’Uomo” -Edizioni Associate, 2002)
Addio, addio Casarsa vado via per il mondo
Lascio il padre e la madre vado via con Napoleone
Addio vecchio paese, addio giovani amici
Napoleone chiama la meglio gioventù
Quando si alza il sole al primo chiaro del giorno
Vincenzo col suo cavallo di nascosto se ne è partito
Correva lungo il Tagliamento e quando suona mezzodì
Vincenzo si presenta a Napoleone
Come furono passati sette mesi sono in mezzo al ghiaccio
A conquistare la Russia perduti e abbandonati
Come furono passati sette giorni sono in mezzo al gelo
Della grande colonia feriti e prigionieri
Spaventato il cavallo, fuggiva per la neve
E sopra aveva Vincenso che ferito delirava
Gridava fermati cavallo, ferma, fermati ti prego
Che è ora che ti dia un mannello di fieno
Il cavallo si ferma e con locchio quieto buono
Guarda il suo padrone che ormai muore di freddo
Lincenso gli squarcia il ventre, la sua baionetta
E dentro vi ripara la vita che gli avanza
Susanna con suo padre passa di lì sul carro
E vede il giovincello nei visceri del cavallo
Salviamolo padre mio questo povero soldato che muore nella colonia
Caduto e abbandonato
Chi siete bel soldato venuto da lontano
Sono Colussi Vincenzo un giovane italiano
E voglio portarti via appena sarò guarito
Perché nel petto con gli occhi mi hai ferito
No, no che non vengo via perché mi sposo questa pasqua
No, no che non vengo via perché a pasqua sarò già morta
“Cristo al Mandrione” è una delle canzoni in dialetto romanesco scritte da Pasolini per Laura Betti (con la musica di Piero Piccioni) all’inizio degli anni 60. Il Mandrione era negli anni 50 una delle zone più povere di Roma. Il nome della borgata deriva da quello della strada che l’attraversa, via del Mandrione, dove un tempo passavano le greggi e le mandrie dirette ai pascoli. Subito dopo la seconda guerra mondiale è in quella borgata che si rifugiarono sfollati che avevano perso tutto sotto i bombardamenti (in particolare quello di SanLorenzo del 1943), zingari e tanta gente venuta dal Sud. Le loro baracche erano costruite sotto l’arco del grande acquedotto che attraversa la zona. Oggi, il quartiere popolare del Mandrione è tutto cambiato, in seguito ad una grande operazione di riqualificazione, e non assomiglia più per nulla a quello raccontato da Pasolini in questa canzone.
Autori del testo - Pier Paolo Pasolini, Francesco Messina
Autori della musica - Francesco Messina
Interprete - Alice
La poesia La recessione di Pasolini nella sua versione originale, pubblicata in "La nuova gioventù" che è la è seconda forma de "La meglio gioventù" (Einaudi, 1974), è' una poesia in friulano, poi tradotta in italiano dallo stesso Pasolini e adattata a testo musicale. La canzone La recessione, cantata da Alice su testo di Pier Paolo Pasolini e musicata da Mino De Martino, è contenuta nel suo album "Mezzogiorno sulle Alpi" (1992). La recessione è contenuta anche nel CD "Luna di giorno", Micocci Dischitalia Editori, 1995 nel quale sono compresi 13 testi di Pier Paolo Pasolini, oltre al Lamento per la morte di Pasolini, di Giovanna Marini e Una storia sbagliata, di Fabrizio De Andrè.
Rivedremo calzoni coi rattoppi
rossi tramonti sui borghi
vuoti di macchine
pieni di povera gente che sarà tornata da Torino o dalla Germania
I vecchi saranno padroni dei loro muretti come poltrone di senatori
e i bambini sapranno che la minestra è poca e che cosa significa un pezzo di pane
E la sera sarà più nera della fine del mondo e di notte sentiremmo i grilli o i tuoni
e forse qualche giovane tra quei pochi tornati al nido tirerà fuori un mandolino
L'aria saprà di stracci bagnati
tutto sarà lontano
treni e corriere passeranno ogni tanto come in un sogno
E città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi
con i vestiti grigi
e dentro gli occhi una domanda che non è di soldi ma è solo d'amore
soltanto d'amore
Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde
nella curva di un fiume
nel cuore di un vecchio bosco di querce
crolleranno un poco per sera
muretto per muretto
lamiera per lamiera
E gli antichi palazzi
saranno come montagne di pietra
soli e chiusi com'erano una volta
E la sera sarà più nera della fine del mondo
e di notte sentiremmo i grilli o i tuoni
L'aria saprà di stracci bagnati
tutto sarà lontano
treni e corriere passeranno
ogni tanto come in un sogno
E i banditi avranno il viso di una volta
con i capelli corti sul collo
e gli occhi di loro madre pieni del nero delle notti di luna
e saranno armati solo di un coltello
Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra leggero come una farfalla
e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo
e ciò che sarà.
La recessione (poesia in friulano di P.P. Pasolini)
I jodarìn borghèssis cui tacòns; tramòns ros su borcsvuèis di motòurs e plens de zòvinsstrassòns tornàas da Turin o li Germàniis.
I vecius a saràn paròns dai so murès coma di poltronis di senatòurs; i frus a savaràn che la minestra a è pucia, e se c'ha val un toc di pan.
La sera a sarà nera coma la fin dal mond, di not si sentiràn doma che i gris o i tons; e forsi, forsi, qualchi zòvin - un dai pus zòvins bons turnàas al nit -
a tirarà fours un mandulìn. L'aria a savarà di stras bagnàs. Dut a sarà lontàn. Trenos e corieris a passaràn di tant in tant coma ta un siun.
Li sitàs grandis coma monds a saràn plenis di zent ch'a vas a piè cui vistìs gris, e drenti tai vuj 'na domanda, 'na domanda ch'a è,
magari , di un puc di bès, di un pàssul plasèir, ma invessi a è doma di amòur. I antics palàs a saràn coma montaglia di piera soj e sieràs, coma ch'a erin ièir.
Li pìssulis fabrichis tal pì bièl di un prt verd ta la curva di un flun, tal còur di un veciu bosc di roris, a si sdrumaràn.
un puc par sera, murèt par murèt lamiera par lamiera. I bandìs (i zòvin tornàs a ciasa dal mond cussì divièrs da coma ch'a èrin partìs)
a varàn li musis di 'na volta, cui ciaviej curs e i vuj di so mari plens dal neri da li nos di luna - e a saràn armàs doma che di un curtìa.
Il sòcul dal ciavàl al tociarà la ciera, lizèir coma 'na pavèa, e al recuardarà se ch'al è stat, in silensiu, il mond e chel ch’al sarà.
Nossignori, l’intervista col ragazzo che sa non appare col nome del
ragazzo che sa.
Non daremo il nome di quel ragazzo. Non ne
forniremo neppure i dati somatici, nella speranza che ciò serva a non
farlo riconoscere dagli assassini di Pasolini prima che la polizia possa
trovarlo e interrogarlo e proteggerlo.
Oltretutto la sua non è
un’intervista data spontaneamente e con gioia. È un’intervista
strappata, estorta pezzo per pezzo, giorno per giorno, attraverso
preghiere, chiacchiere, promesse, a un poveretto sconvolto dal terrore
d’essere punito da
«una pistolettata in bocca».
Un poveretto che
appartiene al mondo dei prostituti romani, cinquemila al colpo, dieci
se va bene, e zitto sennò ti ritrovi morto anche te sul sentiero di
qualche borgata. Chi ha visto il suo volto pallido di paura, i suoi occhi
bagnati di angoscia, chi ha udito la sua voce disperata mentre si
raccomandava:
«Tu me devi capì, cerca de capì, la verità io ce l’ho
qua in bocca. E me brucia. Vorrei dirtela proprio, vorrei dirtela tutta.
Ma nun ce la faccio perché quelli m’ammazzeno con ’na pistolettata
in bocca»,
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Lettere a Pier Paolo Pasolini
da Massimo Ferretti | Dic 7, 2024
Pubblichiamo in anteprima tre lettere di Massimo Ferretti a Pier Paolo Pasolini, con risposte di quest’ultimo, dal volume da poco uscito per Giometti & Antonello curato da Massimo Raffaeli.
LETTERA N. 2
A Pier Paolo Pasolini, Roma
Jesi, 5 agosto 1955
Caro professore[1],
ho rinunciato a Schwarz[2], cioè a 60.000 lire. Delle ottantamila versate, forse ne riavrò venti: merito di una bugia «drammatica» inventata per l’occasione. Per almeno 5 anni non potrò neppure pensare di stampare un libro; ma non mi dispiace: capisco perfettamente cosa significhi esordire su una rivista come «Officina», e soprattutto cosa voglia dire essere scoperto da LEI.
Dal ’52 in poi ho letto con passione e disordine diversi libri di poesia – buoni e cattivi –; tutti mi hanno dato qualcosa ma nessuno mi ha offerto un mondo da continuare. Dunque, se la «vena» si è sporcata le ragioni sono più gravi dell’influenza esterna di brutti versi (Di Ruscio, Non possiamo abituarci a morire)[3]: ma non voglio pensarci. Sono contento del consenso dei Suoi amici, che a suo tempo ringrazierò direttamente. Se avrà occasione di scrivermi qualche altra volta La prego di darmi del «tu».
Ora sono del tutto inedito, e Lei è il mio Sole: illumini pure quello che vuole. Con i più cordiali saluti suo aff.mo
(Oggi in "Un paese di temporali e di primule" - a cura di Nico Naldini)
Madame de Sévigné scrisse un giorno in una lettera dai Rochers questo periodetto che il Sainte-Beuve riporta nei suoi Ritratti di donne (senza rilevarne tuttavia una gratuità romantica): «Come sarei felice tra questi boschi, se avessi una foglia che cantasse: oh la cosa meravigliosa, una foglia che canta». C’è una svenevolezza che rischia di scoprirsi in quel desiderio irrichiesto di sentir cantare le foglie; e il soffermarsi sull’idea, col gusto di chi rigiri tra le dita una perla, sfiata un poco le parole in quell’esclamazione sicura dell’effetto. Ora io riconosco a Madame de Sévigné il merito di aver avuto per prima l’impressione che le foglie possano cantare; e quel po’ di romanticismo ante litteram me la rende del resto anche più amabile. Stabilito questo punto, vengo subito alle mie foglie, alle mie «fuejs», che dopo Pordenone (tornando in treno da Bologna) mi diedero un’impressione inesatta, vasta. Un soffio mi separava dall’Emilia (il Po correva a poche ore dalle mie spalle, in un paesaggio inciso nel buio), e l’abitudine a sentirmi laggiù, per le strade della città dov’ero vissuto da ragazzo, stava disfacendosi dentro di me, rotta dallo spietato muoversi del treno. La naturalezza con cui questo avveniva, e io permettevo che avvenisse, mi dava un disgusto distaccato da me; e ne rimandavo l’esame a quel momento imprecisabile del mio arrivo a Casarsa, che tuttavia non mi si sarebbe mai disegnato con la precisione richiesta da un atto conclusivo. Sapevo che in quei prati favolosi un altro «presente» mi avrebbe gettato nelle sue possibilità infinite, benché io, vestito di verde con la cartella in mano, fossi per camminare sopra certi determinatissimi fili d’erba, certo determinatissimo fango. Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall’autunno, quelle case isolate dove si diceva «pare», «mare», «fradèo», «gèrimo», «l’è morto»... entravano nel buio dietro a la mia schiena, sfiorandomi appena l’occhio impotente.
È incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi, per non più di cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione. In quei cinque minuti stavo cenando in fretta, e i miei occhi non potevano non cadere sul «video» acceso, proprio davanti alla tavola (mia madre e mia zia sono tra i dannati che vedono la televisione tutte le sere).
Il mio sguardo era acre, s’intende. Infatti, per tutta la mezz’ora precedente la cena, avevo corretto delle bozze, e la voce sciocca e futile, piena di insopportabile ottimismo, della televisione, mi aveva tormentato.
Acri, erano dunque i miei occhi, ma tutto sommato abbastanza distratti e lontani. Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili una all’altra, stavano facendo delle evoluzioni, d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote, incastonate in un ritmo, che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile. A cosa alludevano quelle mossucce, quei colpetti di reni e quelle tiratine di collo? Non si capiva bene, ma certo a qualcosa di estremamente convenzionale comunque: a un’allegria collegiale e orgiastica, in cui la donna appariva come una scema, con dei pennacchi umilianti addosso, un vestituccio indecente che nascondeva e insieme metteva in risalto le rotondità del corpo, così come se le immagina, se le sogna, le vuole un vecchio commendatore sporcaccione e bigotto. Tutto ciò, che si presentava come leggero, era invece pesantemente volgare. La «disparità dei sessi» era sbandierata spudoratamente come una legge fatale e prepotente di un «sentimento comune». (Si lotta per il divorzio, e poi si continua a volere e vedere la donna come una buffona, vestita e agghindata come per un mercatino delle schiave?)
Ci sono considerazioni da fare, e si fanno. Per esempio, questa di Arbasino da Francoforte, a proposito della «Fiera del libro», sul «Corriere della Sera»: «Infine, l’assemblea della contestazione, una volta installata nell’ambito dell’istituzione contestata, ne imita le strutture e ne diventa un organo. Ne diventa inoltre attrazione e spettacolo. Daniel Cohn-Bendit non può non accorgersene subito, e arriva piuttosto arrabbiato a sostenere che bisogna darsi altre strutture e altre istituzioni, non già infiltrarsi in quelle vilipese, o peggio ancora imitarle nella burocrazia e nella pedanteria. Ma a questo punto, facendo della contestazione nella contestazione, diventa lui stesso spettacolo nello spettacolo, e la gioia degli operatori della televisione è pari soltanto a quella dei visitatori che hanno pagato solo quattro marchi di biglietto».